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L’autore
Fare poesia nei tempi bui, un impegno civile
La mia è una generazione di perdenti. Nel ‘68 avevo i calzoni corti e le barricate erano lontane. Nel ‘77 nelle strade si sparava, io stavo in Università, in controtendenza, e prendevo botte da orbi dai “coristi della rivoluzione”. Poi anche quelle tristezze finirono. Ne seguirono altre: fu l’era del desencanto, dell’Italia governata con le bombe e la corruzione. Io contadino, esule inurbato al Nord, solo come un passero d’inverno, facevo politica a tempo pieno: in casa ero insultato perché non portavo soldi, manco per mangiare, e fuori pure: ero un rubasoldi, come tutti i politici. Anche quel lavorio finì, e passai a fare dell’altro. Ed altro ancora.
A quelli della mia generazione è capitato di fare di tutto, escluso ciò per cui s’era studiato. Ma sempre abbiamo tenuto fermo l’ideale di gioventù, ricordandoci che, in ogni attività, avendo a che fare “con uomini e con padroni”, occorreva stare con gli uomini e mai con i padroni. Ecco io, a tarda età, questo precetto, posso dire di averlo sempre praticato. Certo, ho perso tutte le mie guerre. Ma arreso, non mi sono arreso mai.
L’opera
Sia chiaro, questo non è un libro per depressi: qui incontrerete solo parole per cuori forti. Invocazioni per spiriti capaci di sentire la pena per gli esseri umani, che la vita ci porta a incontrare o di cui apprendiamo il destino.
Qui, lento s’inerpica il canto dolente: le invocazioni dei perdenti, il solenne “ricordami!” d’una martire di Auschwitz, di cui rimane, triste reliquia, solo la sua “treccia”. E poi “i luoghi”, dove trovano memoria le genti solitarie di Calabria e i tramonti d’Oltrepò. Ma, poi, inaspettatamente, vi capiterà anche di discorrere, Nottetempo, di Metafisica e di cercare di portare conforto a Dio, assediato dalla propria solitudine. Nel declinare l’intera parabola delle umane debolezze, anche di quelle umanissime, come quegli amari amori vaganti, non potevano mancare le stazioni dei Silenzi e degli Abbandoni, prima della sosta definitiva, quella del Morire: ovvero dell’inconsolabilità del morire dell’amato amore.
Perché ho scritto quest’opera
Si cresce, in qualche modo, poi si chiudono gli occhi e ci si butta: di qua o di là, sperando di non annegare. Ma non sempre ce la si fa. Vengono i giorni neri, quando ti cerchi e non ti trovi, ti guardi e non vorresti riconoscerti. C’è chi si fa di prozac, chi cerca uno bravo, chi si fa e basta. Qualcuno si chiama, si parla: per parlarsi deve saper trovare le parole. E quando le trova le deve saper mettere in fila.
E allora scrivi, tracci righe su righe su un foglio bianco, di notte, mentre la Luna ti guarda severa e ti dice: “Coglione, stavolta, non barare; se sei una persona seria devi saper dire la verità: su di te e sul tuo mondo”. Ecco, se vuoi fare Poesia devi avere la capacità, anzi la forza, di sbattere la verità in faccia al mondo. Come se non ci fosse un domani. E fottertene, di te.
Estratto
Terra di Calabria
In ascolto del silenzio della Terra,
nero come la notte primitiva,
odo il tonfo del mare inquieto:
acque fameliche e venti crudeli:
cimitero di anime in fuga, senza
speranza.
Avvolto dentro me stesso m’incammino
tra gli ulivi, miti boschi domestici.
Scruto le pietraie delle fiumare torbide
che nei mesi scuri scavano i fianchi
delle serre brune, e bruciano tra i sassi
di sghimbescio nelle fiamme d’agosto.
Là, oltre i pianori sconnessi, ci sono
le erte selvagge dell’Aspromonte:
l’immane teoria di monti nudi sprofonda
tra valli tetre ma poi rapida s’inerpica,
stagliata su pietre scheggiate
che s’avvitano al cielo.
Qui, i tramonti ribollono, come il mosto
caldo delle aspre vigne.
Qui, le albe insanguinano le anime
di uomini soli, già rassegnati all’odio
che verrà.
Una terra dura e dolorosa e sterile:
irragionevolmente a festa colorata.
Qui vive, solitaria, la gente di Calabria:
fantasmi d’antefatti, frammenti sparsi
di guerre perse in ardimenti vani.
Il pianto delle sirene
Singhiozzano le sirene nella notte.
È tornato il tempo greve del morbo.
Cieco, il destino ci cammina accanto,
e tocca a caso.
Incerti, attraversiamo la folla
assiepata di facce mascherate.
Dalle feritoie degli occhi scrutiamo
altri occhi, che ci sfiorano distanti.
Nel rosario dei giorni che odorano
di morte si consuma ogni credo,
l’angoscia assedia ogni parlare.
E noi, stupiti, rimaniamo soli.
Stranieri al cospetto del nulla.
La treccia
La treccia era bionda, granturco bruciato
dal caldo di luglio: un giallo di ruggine
che odora di vento.
Una treccia distesa su un milione di trecce.
Un cumulo immane, capelli dimentichi
dei corpi ornati nel tempo dei vivi.
La treccia mi guarda, mi chiama, mi dice:
non sono una treccia in un rovo di trecce,
una muta reliquia del campo di Auschwitz.
Una vita: da donna Lei ha avuto una vita.
Rivuole il suo nome, non la memoria di tutti.
Perché tutti, tutti sono nessuno.
Tutti sono solo capelli, di vario colore.
Lei… invece è la treccia di Lei.
Sarah, un nome d’antico sapore, una storia
di Shtetl, nel distretto di Kiev, uno sguardo
di fuoco, e quegli occhi di giada.
L’uccisero sotto un cielo pulito dal vento,
morì in un giorno di sole crudele.
Una treccia! ora è solo una treccia.
Una treccia che cerca il suo corpo,
una treccia che guarda dal vetro,
distesa su un monte di corpi mancanti.
Al bar del ponte (della ferrovia)
Baluginante è il brulichio dell’Essere:
immobile gorgoglia parole clandestine.
Emotività liquida, poco plausibile
alle labbra ossute del mio sgomento.
È scuro fuori, non meno che qui dentro,
una camera in affitto, al giusto prezzo.
Aspetto che un’altra notte si dissolva.
Aspiro, fino all’ultima brace, l’ultima
dell’ultimo pacchetto, compagno
di troppe ore a piedi a scandagliare
il ciglio della vita.
Esco e lascio dentro, nel buio sporcato
dalla Luna, ombre d’inverno, deformi
pentimenti tardivi: solo sensi di colpa.
Attraverso il cammino di pietra lucida.
I passi cadono sul selciato, m’inseguono
con l’eco ticchettante d’ inquietudini
d’una fin troppo frequentata solitudine;
l’aria è tagliente, e gli occhi in fiamme
chiamano un sonno che più non viene.
Le sei prima o poi, arriveranno.
Spaesato, guardo tutte quelle facce straniate
che muovono già verso il nuovo giorno.
Soli, a passi netti, se ne vanno svelti
quelli che s’alzano presto al mattino:
hanno il viso scheggiato dai troppi desideri
marciti dentro aspettando il giorno giusto.
Per tutti il bar notturno, quello del Ponte,
è il primo porto di salvezza dopo i naufragi
imaginari della notte: una notte popolata
di figure mai morte, una notte sotto assedio,
e, a volte, di sete: di sete inestinguibile.
Davanti a un barista che sentenzia sapiente
si affollano al bancone gli ignoti testimoni
di un mondo a sé stesso abbandonato,
liberando pensieri precari e discorsi sghembi.
Tutti lì, in quell’ora strana, a brandire parole
nere, a vomitare fiele, a dire oltre ogni dire,
e soprattutto a scancellare le speranze morte.
Perché chi si alza presto al mattino ha la notte
[dentro
Con la vita attorno al collo
Ora che sto solo dietro al buio, l’intera
vita mi sono avvolta attorno al collo.
È finita, e può darsi di no. E forse è peggio:
perché quel che rimane vivo di noi sta
nella luce come dimora abbandonata,
una strada persa, aperta verso il nulla.
Sono accadute delle cose nel frattempo.
Dolori, disgrazie capitate, o meritate,
e pene inestinguibili, come l’arsura.
Il tempo scivolava via, tagliente: nude
le notti, di fiele le albe nere, e i giorni,
uguali: lavoro e poi lavoro, e poi lavoro,
ancora. Ho aspettato che cambiasse,
il tempo.
Ho creduto che un qualcosa, prima o poi,
sarebbe ritornato, perciò ho atteso tanto:
non sapevo ancora quant’era amaro amare.
È finita così, che neppure me ne accorsi.
Una storia neanche tanto semplice da dire,
perché s’è perso quel senso di pietà per quelli
che arrancano lungo un’altra camminata.
Intanto, l’inestricabile groviglio di ricordi,
di gesti solo accennati marciava furibondo
verso di te, che non sei mai giunta, amore.
E io ancora non lo so, non so perché sono
venuto qui, solo, con la vita attorno al collo.
È venuta una donna
È venuta una donna in paese,
È venuta a portare la quiete.
È arrivata a cavallo d’un’ombra,
con il viso sepolto in un velo.
Ha la pelle di serpe lacustre
ha le labbra color della notte
i suoi occhi incendiano il mare.
Un Amante per caso incontrò,
mentre a casa tornava ferito,
la sua guerra Egli aveva perduto:
un amore di fame e mistero
gli ha rubato il sapore del fuoco.
Isabella era un cigno ostinato
che voleva volare oltre il mare,
Isabella non sapeva sognare,
lo ha tradito una notte di marmo.
Lui viveva soltanto d’amore.
Lui d’amore voleva morire.
Lei lo vide e mentendo gli disse
“Nella pace ti voglio portare”.
Lo baciò con un bacio feroce,
lui dagli occhi iniziò a sanguinare.
Era mite, era cieco, era folle:
non fuggì, ma di sbieco sorrise.
La seguì sino al centro del mare
fino a quando d’amore morì.
Il silenzio non tace
Il silenzio non tace.
Ara dentro i morti deserti.
Strega le lagune
delle pallide lune
inquiete.
Fiorisce fragrante.
Ferisce nel segreto mentire
il fragile amante.
Inveisce e sfinisce.
Uccide.
Il silenzio tradisce
i custodi di parole mancate,
di sguardi,
di abbracci sognati.
Promette, delude, dispera.
Cattura i dolori. Umilia:
dei vinti offende la storia.
È ambiguo,
contorto, infelice.
Sconvolto: è vivo e già morto.
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