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Pineta bookapoem (1)

Il libro della tristezza

13,00 

di Nicola Adavastro

La campagna di crowdfunding si è conclusa con successo! Se lo desideri puoi ancora ordinare la tua copia

Inizio campagna 26 luglio 2024
Fine campagna 3 novembre 2024
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Consegna prevista per gennaio 2025.
La spedizione avverrà tramite corriere espresso.

Spedizione gratuita per gli ordini nazionali da 3 copie in su (escluse zone di spedizione speciali).

L’autore

Fare poesia nei tempi bui, un impegno civile

La mia è una generazione di perdenti. Nel ‘68 avevo i calzoni corti e le barricate erano lontane. Nel ‘77 nelle strade si sparava, io stavo in Università, in controtendenza, e prendevo botte da orbi dai “coristi della rivoluzione”. Poi anche quelle tristezze finirono. Ne seguirono altre: fu l’era del desencanto, dell’Italia governata con le bombe e la corruzione. Io contadino, esule inurbato al Nord, solo come un passero d’inverno, facevo politica a tempo pieno: in casa ero insultato perché non portavo soldi, manco per mangiare, e fuori pure: ero un rubasoldi, come tutti i politici. Anche quel lavorio finì, e passai a fare dell’altro. Ed altro ancora. 

A quelli della mia generazione è capitato di fare di tutto, escluso ciò per cui s’era studiato. Ma sempre abbiamo tenuto fermo l’ideale di gioventù, ricordandoci che, in ogni attività, avendo a che fare “con uomini e con padroni”, occorreva stare con gli uomini e mai con i padroni. Ecco io, a tarda età, questo precetto, posso dire di averlo sempre praticato. Certo, ho perso tutte le mie guerre. Ma arreso, non mi sono arreso mai.  

 

L’opera

Sia chiaro, questo non è un libro per depressi: qui incontrerete solo parole per cuori forti. Invocazioni per spiriti capaci di sentire la pena per gli esseri umani, che la vita ci porta a incontrare o di cui apprendiamo il destino.

Qui, lento s’inerpica il canto dolente: le invocazioni dei perdenti, il solenne “ricordami!” d’una martire di Auschwitz, di cui rimane, triste reliquia, solo la sua “treccia”. E poi “i luoghi”, dove trovano memoria le genti solitarie di Calabria e i tramonti d’Oltrepò. Ma, poi, inaspettatamente, vi capiterà anche di discorrere, Nottetempo, di Metafisica e di cercare di portare conforto a Dio, assediato dalla propria solitudine. Nel declinare l’intera parabola delle umane debolezze, anche di quelle umanissime, come quegli amari amori vaganti, non potevano mancare le stazioni dei Silenzi e degli Abbandoni, prima della sosta definitiva, quella del Morire: ovvero dell’inconsolabilità del morire dell’amato amore. 

 

Perché ho scritto quest’opera

Si cresce, in qualche modo, poi si chiudono gli occhi e ci si butta: di qua o di là, sperando di non annegare. Ma non sempre ce la si fa. Vengono i giorni neri, quando ti cerchi e non ti trovi, ti guardi e non vorresti riconoscerti. C’è chi si fa di prozac, chi cerca uno bravo, chi si fa e basta. Qualcuno si chiama, si parla: per parlarsi deve saper trovare le parole. E quando le trova le deve saper mettere in fila.

E allora scrivi, tracci righe su righe su un foglio bianco, di notte, mentre la Luna ti guarda severa e ti dice: “Coglione, stavolta, non barare; se sei una persona seria devi saper dire la verità: su di te e sul tuo mondo”.  Ecco, se vuoi fare Poesia devi avere la capacità, anzi la forza, di sbattere la verità in faccia al mondo. Come se non ci fosse un domani. E fottertene, di te. 

 

Estratto

Terra di Calabria

In ascolto del silenzio della Terra,

nero come la notte primitiva,

odo il tonfo del mare inquieto:

acque fameliche e venti crudeli:

cimitero   di anime in fuga, senza

speranza.

 

Avvolto dentro me stesso m’incammino

tra gli ulivi, miti boschi domestici.

Scruto le pietraie delle fiumare torbide

che nei mesi scuri scavano i fianchi

delle serre brune, e bruciano tra i sassi

di sghimbescio nelle fiamme d’agosto.

 

Là, oltre i pianori sconnessi, ci sono   

le erte selvagge dell’Aspromonte:

l’immane teoria di monti nudi sprofonda

tra valli tetre ma poi rapida s’inerpica,

stagliata su pietre scheggiate

che s’avvitano al cielo.

 

Qui, i tramonti ribollono, come il mosto      

caldo delle aspre vigne.

Qui, le albe insanguinano le anime

di uomini soli, già rassegnati all’odio

che verrà.

Una terra dura e dolorosa e sterile:

irragionevolmente a festa colorata.

 

Qui vive, solitaria, la gente di Calabria:

fantasmi d’antefatti, frammenti sparsi

di guerre perse in ardimenti vani.

 

 

Il pianto delle sirene

Singhiozzano le sirene nella notte.

È tornato il tempo greve del morbo.

Cieco, il destino ci cammina accanto,

e tocca a caso.

 

Incerti, attraversiamo la folla

assiepata di facce mascherate.

Dalle feritoie degli occhi scrutiamo

altri occhi, che ci sfiorano distanti.

 

Nel rosario dei giorni che odorano

di morte si consuma ogni credo,

l’angoscia assedia ogni parlare.

E noi, stupiti, rimaniamo soli.

 

Stranieri al cospetto del nulla.

 

 

La treccia

La treccia era bionda, granturco bruciato

dal caldo di luglio: un giallo di ruggine

che odora di vento.

 

Una treccia distesa su un milione di trecce.

Un cumulo immane, capelli dimentichi

dei corpi ornati nel tempo dei vivi.

 

La treccia mi guarda, mi chiama, mi dice:

non sono una treccia in un rovo di trecce,

una muta reliquia del campo di Auschwitz.

 

Una vita: da donna Lei ha avuto una vita.

Rivuole il suo nome, non la memoria di tutti.

Perché tutti, tutti sono nessuno.

Tutti sono solo capelli, di vario colore.

 

Lei… invece è la treccia di Lei.

Sarah, un nome d’antico sapore, una storia

di Shtetl, nel distretto di Kiev, uno sguardo

di fuoco, e quegli occhi di giada.

L’uccisero sotto un cielo pulito dal vento,

morì in un giorno di sole crudele.

 

Una treccia! ora è solo una treccia.

Una treccia che cerca il suo corpo,

una treccia che guarda dal vetro,

distesa su un monte di corpi mancanti.

 

 

Al bar del ponte (della ferrovia)

Baluginante è il brulichio dell’Essere:

immobile gorgoglia parole clandestine.

Emotività liquida, poco plausibile

alle labbra ossute del mio sgomento.

È scuro fuori, non meno che qui dentro,

una camera in affitto, al giusto prezzo.

Aspetto che un’altra notte si dissolva.

Aspiro, fino all’ultima brace, l’ultima

dell’ultimo pacchetto, compagno

di troppe ore a piedi a scandagliare

il ciglio della vita.

Esco e lascio dentro, nel buio sporcato

dalla Luna, ombre d’inverno, deformi

pentimenti tardivi: solo sensi di colpa.

Attraverso il cammino di pietra lucida.

I passi cadono sul selciato, m’inseguono

con l’eco ticchettante d’ inquietudini

d’una fin troppo frequentata solitudine;

l’aria è tagliente, e gli occhi in fiamme

chiamano un sonno che più non viene.

Le sei prima o poi, arriveranno.

Spaesato, guardo tutte quelle facce straniate

che muovono già verso il nuovo giorno.

Soli, a passi netti, se ne vanno svelti

quelli che s’alzano presto al mattino:

hanno il viso scheggiato dai troppi desideri

marciti dentro aspettando il giorno giusto.

Per tutti il bar notturno, quello del Ponte,

è il primo porto di salvezza dopo i naufragi

imaginari della notte: una notte popolata

di figure mai morte, una notte sotto assedio,

e, a volte, di sete: di sete inestinguibile.

Davanti a un barista che sentenzia sapiente

si affollano al bancone gli ignoti testimoni

di un mondo a stesso abbandonato,

liberando pensieri precari e discorsi sghembi.

Tutti lì, in quell’ora strana, a brandire parole

nere, a vomitare fiele, a dire oltre ogni dire,

e soprattutto a scancellare le speranze morte.

 

 

Perché chi si alza presto al mattino ha la notte

                                                                                  [dentro

 

 

Con la vita attorno al collo

Ora che sto solo dietro al buio, l’intera

vita mi sono avvolta attorno al collo.

 

È finita, e può darsi di no. E forse è peggio:

perché quel che rimane vivo di noi sta

nella luce come dimora abbandonata,

una strada persa, aperta verso il nulla.

 

Sono accadute delle cose nel frattempo.

Dolori, disgrazie capitate, o meritate,

e pene inestinguibili, come l’arsura.

 

Il tempo scivolava via, tagliente: nude

le notti, di fiele le albe nere, e i giorni,

uguali: lavoro e poi lavoro, e poi lavoro,

ancora. Ho aspettato che cambiasse,

il tempo.

 

Ho creduto che un qualcosa, prima o poi,

sarebbe ritornato, perciò ho atteso tanto:

non sapevo ancora quant’era amaro amare. 

È finita così, che neppure me ne accorsi.

 

Una storia neanche tanto semplice da dire,

perché s’è perso quel senso di pietà per quelli

che arrancano lungo un’altra camminata.

 

Intanto, l’inestricabile groviglio di ricordi,

di gesti solo accennati marciava furibondo

verso di te, che non sei mai giunta, amore.

 

E io ancora non lo so, non so perché sono

venuto qui, solo, con la vita attorno al collo.

 

 

È venuta una donna

È venuta una donna in paese,

È venuta a portare la quiete.

È arrivata a cavallo d’un’ombra,

con il viso sepolto in un velo.
Ha la pelle di serpe lacustre

ha le labbra color della notte

i suoi occhi incendiano il mare.

Un Amante per caso incontrò,
mentre a casa tornava ferito,

la sua guerra Egli aveva perduto:

un amore di fame e mistero

gli ha rubato il sapore del fuoco.
Isabella era un cigno ostinato

che voleva volare oltre il mare,

Isabella non sapeva sognare,

lo ha tradito una notte di marmo.
Lui viveva soltanto d’amore.

Lui d’amore voleva morire.

Lei lo vide e mentendo gli disse

“Nella pace ti voglio portare”.
Lo baciò con un bacio feroce,

lui dagli occhi iniziò a sanguinare.

Era mite, era cieco, era folle:

non fuggì, ma di sbieco sorrise.
La seguì sino al centro del mare

fino a quando d’amore morì.

 

 

Il silenzio non tace

Il silenzio non tace.

Ara dentro i morti deserti.

Strega le lagune

delle pallide lune

inquiete.

Fiorisce fragrante.

Ferisce nel segreto mentire

il fragile amante.

Inveisce e sfinisce.

Uccide.

 

Il silenzio tradisce

i custodi di parole mancate,

di sguardi,

di abbracci sognati.

Promette, delude, dispera.

Cattura i dolori. Umilia:

dei vinti offende la storia.

È ambiguo,

contorto, infelice.

Sconvolto: è vivo e già morto.

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